Svuotare un armadietto, riempire la vita

Un addio che pesa più del previsto
Qualche giorno fa sono passata in ospedale per restituire il badge e svuotare il mio armadietto.
Mi sono presa un po’ di tempo prima di farlo, per darmi modo di metabolizzare. Sapevo che una parte di me avrebbe sofferto anche solo per un gesto semplice come quello. Perché, in realtà, significava mettere un punto. Scrivere la parola “fine” su qualcosa che mi ha accompagnato per sette anni.
Con me c’era la mia collega e ormai amica Assunta. Ad un certo punto è andata via, lasciandomi da sola. E in quel momento ho provato sollievo. Conoscendomi, avrei fatto tutto di fretta: svuotato, chiuso, via. Senza voltarmi indietro.
È il mio solito meccanismo di difesa: accelero per non sentire, per non pensare. Procedo in automatico.
Ma nell’ultimo periodo ho capito che l’unico modo per superare certe cose è attraversarle. Restare nel dolore, nella paura, in ciò che fa male.
Mi sono seduta davanti al mio armadietto e l’ho fissato per qualche minuto. Pensavo a quanto l’avessi sentito mio, pur non essendolo mai stato davvero.
Cerco di allenarmi continuamente al non attaccamento alle cose, come alle persone ma dopo un po’, che ci piaccia o no, qualcosa finisce per diventare “nostro”. Ed è difficile non cascare in questa dinamica.
Forse l’unico modo per non soffrire è ricordarsi che niente ci appartiene davvero, per sempre.
Ho staccato lentamente i fogli incollati negli anni, lasciandone alcuni sull’armadietto di Assunta, come ricordo. Ho ritrovato le cuffiette usate durante il Covid e ho ripensato a quel periodo. C’era anche il mio block notes, con annotati tutti i numeri interni dell’ospedale – ora li so a memoria, e ho sorriso.
Ho riempito una busta con le felpe scolorite, i profumi, l’astuccio con le penne e i termometri, le ciabatte rotte e le scarpe ormai consumate.
Per una volta, non sono fuggita da quella nostalgia e da quella malinconia. Ci sono rimasta dentro. E mi è sembrato giusto così.
Quando finisce qualcosa, può iniziare qualcosa di ancora più bello
Poi mi sono fatta forza.
Ho preso la busta e sono andata a riconsegnare le chiavi. Mi sono chiesta chi avrebbe avuto il mio armadietto. Ho scoperto che l’avrebbe preso Ana, una mia collega rientrata dalla maternità.
Ho sorriso, come si sorride quando finisce una storia e ne inizia un’altra, magari ancora più bella.
Ho passato il testimone e finalmente ho lasciato andare.

Il valore della noia e della lentezza
«Ma non ti annoi a stare a casa?»
Nell’ultimo mese questa è la domanda che mi è stata rivolta più spesso.
E la mia risposta è semplice: «no, non mi annoio».
Ma mi ha colpito il modo in cui viene posta: come se annoiarsi fosse sbagliato.
Viviamo in un mondo in cui siamo costantemente spinti ad andare a mille all’ora, a essere multitasking ed a non fermarci mai.
Anche i bambini ormai hanno agende piene: sport, attività e impegni vari. È diventato normale tornare a casa sfiniti dalla giornata.
Eppure io ricordo bene quando – da piccola – andavo da mia madre, le tiravo la gonna e le dicevo: «Mamma, mi annoio».
E lei rispondeva: «e allora annoiati, non fa niente».
Aveva ragione.
Annoiarsi va bene.
Non bisogna per forza fare qualcosa. Non è obbligatorio riempire ogni minuto per sentirsi realizzati.
Il tempo ritrovato
A me mancava il mio tempo.
Mi mancava svegliarmi senza sveglia, fare colazione con calma e camminare senza controllare l’orologio ogni cinque minuti.
E questo, incredibilmente, è stato il mese più bello della mia vita.
Non perché sia successo qualcosa di eccezionale, ma perché ho finalmente avuto il tempo. Il mio tempo. E l’ho dedicato alle persone che amo.
Spesso mi sono sentita dire: «beata te che puoi permettertelo».
Ho sorriso ogni volta perché in realtà non sono ricca come pensano, ma non ho mai risposto a questa affermazione.
Quella frase – “non posso permettermelo” – è la stessa scusa che mi sono raccontata per anni, ogni volta che avevo paura di cambiare.
Una nuova storia
Qualche giorno fa mio fratello mi ha detto:
«Forse una volta nella vita è giusto mandare tutto all’aria e ricominciare da zero».
Forse sì.
Forse ogni tanto è necessario.
È necessario cambiare, ma soprattutto è necessario avere il coraggio di ascoltare quello che ci manca davvero.

E allora vi chiedo:
Quand’è stata l’ultima volta che vi siete concessi il lusso di annoiarvi? Di restare? Di non correre? Forse è proprio lì, in quel vuoto, che iniziamo davvero a sentirci pieni.