Racconti

Non era un caso

A volte non siamo noi a scegliere gli incontri. Sono loro a scegliere noi.

Era un pomeriggio d’inverno, uno di quelli in cui la luce sembra svanire prima ancora che il giorno finisca. Il cielo era basso e grigio, e una nebbia leggera si posava sulle strade come un velo. Avevo già preso impegni per quel pomeriggio, ma Paolo mi aveva scritto con un entusiasmo insolito: voleva presentarmi una sua amica, una persona a cui teneva molto. Non ebbi il coraggio di dirgli di no. Così, con un po’ di fretta e qualche senso di colpa, mandai i vari messaggi di disdetta.

Mentre camminavo verso Piazza dei Signori, le mani strette nelle tasche del cappotto, mi chiedevo se ne valesse davvero la pena. Avevo la mente affollata da mille pensieri: il lavoro, le cose lasciate a metà, le solite preoccupazioni. Un incontro imprevisto era l’ultima cosa che desideravo.

Eppure, quando la vidi arrivare, il mio scetticismo si incrinò.
«Piacere, Rita» disse, tendendomi la mano. Indossava un cappotto rosso acceso che sembrava stonare con la giornata grigia, ma in realtà la illuminava. Aveva uno di quei sorrisi caldi che ti fanno abbassare le difese senza che tu te ne accorga.
«Piacere, Fedora» risposi, stringendole la mano con la mia solita goffaggine, sperando che non notasse quanto fosse sudata.

Entrammo da Pedron Caffè. L’odore di cioccolata calda e pasticceria appena sfornata riempiva l’aria, e per un momento mi sentii accolta, quasi coccolata. Ci sedemmo vicino a una finestra che dava sulla piazza. Il brusio delle persone, i bicchieri che tintinnavano, la luce soffusa: tutto sembrava rallentare.

Parlammo delle solite cose — il lavoro, la città, di come io e Paolo ci eravamo conosciuti e di come lei aveva incontrato Graziano. Le parole si intrecciavano tranquille, ma io non riuscivo a togliermi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa di insolito in quell’incontro.

Poi Rita aprì la sua borsa. Ne tirò fuori due pacchetti, piccoli e ben confezionati, uno rosso e l’altro verde brillantinato. Li poggiò sul tavolo con delicatezza, come se fossero fragili.
Con un sorriso che si allargava sulle labbra dipinte di rosso, mi porse quello verde. Non ci conoscevamo, perché mai mi stava facendo un regalo?

«Aprilo» disse, con un tono che non ammetteva esitazioni ma trasmetteva una dolce urgenza.

Lo scartai lentamente, quasi con timore. Era un libro. Non guardai subito il titolo: mi attirò la prima pagina, e fu lì che lessi la dedica scritta a matita:

A Fedora. Ricordati di essere felice. Con stima, Rita.

Rimasi immobile. Quelle parole mi attraversarono come un fulmine. “Ricordati di essere felice.” Una sconosciuta che mi diceva proprio quello che io stessa non avevo mai avuto il coraggio di ammettere: non ero felice. O meglio, non abbastanza. Vivevo, correvo, incastravo doveri e appuntamenti, ma dentro di me c’era un vuoto che non avevo il coraggio di guardare in faccia.

Alzai lo sguardo verso Rita. I suoi occhi mi osservavano sereni, come se sapesse di aver colto un segreto che nemmeno io sapevo confessare. Solo allora vidi il titolo: Succede sempre qualcosa di meraviglioso.

Non era un caso. Non poteva esserlo.

Lessi quel libro nei giorni seguenti, pagina dopo pagina. Non era solo la sua storia a colpirmi, ma il modo in cui quelle parole mi riportavano a me stessa. Ogni frase sembrava un invito a fermarmi, a respirare, a non dare per scontata la vita. Compresi che quella dedica non era un gesto di cortesia, ma una specie di chiave: mi apriva la porta di un cammino che non avevo ancora intrapreso.

Qualche mese dopo, da quell’incontro, nacque la Valigia di Effe. Non fu un progetto studiato a tavolino, ma un bisogno: mettere per iscritto pensieri, emozioni, frammenti di felicità e gratitudine.

Oggi questo blog compie un anno. E un mese fa, come se il cerchio si chiudesse, ho rivisto Rita. Eravamo al mare a Forte dei Marmi. Il vento portava l’odore del sale, le onde disegnavano un ritmo costante. Indossava scarpe rosse e il suo immancabile sorriso. Mi ha donato un altro libro, questa volta sulla gratitudine.

Però stavolta non ho avuto dubbi: non era un caso.

Oggi ho deciso di iniziare a scriverlo. La prima parola che annoto è semplice, ma contiene tutto: grazie.

Grazie a Rita, perché incontrarla quel giorno mi ha salvato. Mi ha ricordato che la felicità non è un traguardo lontano, ma una scelta quotidiana.


Ci sono incontri che non si spiegano con la logica. Arrivano come squarci improvvisi nella trama dei giorni comuni, e ti costringono a fermarti, a guardarti dentro. A volte bastano poche parole, un gesto, uno sguardo: e la tua vita prende una direzione nuova.

Forse la felicità comincia proprio qui, nel riconoscere i segni che la vita ci offre e nell’avere il coraggio di seguirli.

E tu?
Quale incontro ti ha lasciato un segno indelebile?
Chi ti ha ricordato, magari con una frase semplice, chi sei davvero?

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