Racconti

Non so più se lo faccio per me

Ci sono momenti in cui la vita sembra correre troppo in fretta.

E tu non riesci più a capire se stai vivendo per scelta o per abitudine.
Se stai facendo le cose perché ti fanno bene o solo perché ti sentiresti in colpa a non farle.


Sono uscita di casa solo per non sentirmi dire ancora: «Dai, vieni, ti farà bene».
Ho passato tutto il giorno a guardare la pioggia, dalle finestre dell’ufficio, senza davvero vederla.
Non ho fame, non ho voglia di parlare, ma mi sono truccata lo stesso.
Per non sembrare “quella che si trascura”.

Quando arrivo, il bar è già pieno.
Rumore di bicchieri, risate che si mescolano alla musica. Fuori piove, la città brilla di sabato sera, le luci si riflettono sull’asfalto e sembrano scie di pensieri che non si fermano mai.

Mi siedo al tavolino in fondo, vicino alla vetrata, insieme a Laura.
Mi piace perché è lontano dagli altri. Ordiniamo due spritz.

Attorno a noi il vociare dei nostri amici che parlano di lavoro, viaggi, progetti, risate un po’ forzate.
Noi due, invece, ci guardiamo in silenzio.

«Non so perché sono uscita.» confesso, girando lentamente la cannuccia nel bicchiere. «Forse per non far dispiacere gli altri.»

Laura mi guarda e sorride. «Anch’io.» poi prosegue: «Ogni volta penso che se resto a casa qualcuno ci rimarrà male. È assurdo, no?»

«Già.» rispondo. «Eppure lo facciamo lo stesso.»

Per un attimo rimaniamo in silenzio. Le luci del bar si riflettono sulle nostre facce stanche.
Il mondo continua a ridere, ma io non lo sento.

«A volte ho la sensazione di vivere più per gli altri che per me.» dice Laura.
«Esatto» le rispondo io. «Come se dovessimo sempre giustificarci per ciò che vogliamo… o per ciò che non vogliamo più.»

Guardo fuori dalla finestra un gruppo di ragazzi che passa correndo sotto la pioggia. Qualcuno urla, altri ridono. Io invece sospiro.
«Guardali. Sembra tutto così semplice per loro. Li invidio un sacco. Io mi sveglio ogni mattina con il pensiero di dover convincere me stessa a ricominciare.»

Laura annuisce lentamente.
«Il lavoro poi, non lo sopporto più. Mi ruba tutto, ma non posso mollarlo, ho troppe spese: il mutuo, il bambino, le bollette. Mi dico che sto solo aspettando il momento giusto per cambiare, ma pare non arrivi mai.»

«Non arriva mai perché non ce lo concediamo.» rispondo. «Ci incastriamo da sole, passo dopo passo. Prima un lavoro che non ci piace, un mutuo e poi, per finire, un figlio. E ogni volta ci diciamo che è per costruire qualcosa, ma la verità è un’altra: non vogliamo ammettere che non siamo felici.»

Laura gioca con il tovagliolo tra le mani. Riduce il bordo in pezzetti minuscoli, uno dopo l’altro.
«È come se ci fossimo infilate in una vita che non abbiamo scelto davvero.» mi dice piano, come se fosse un segreto. «E ogni volta che provo a cambiare qualcosa, mi sembra di deludere qualcuno. Mi sento in colpa anche solo a volere un po’ di pace.»

«Vero.» le dico. «Come se la pace fosse un lusso. Come se riposare significasse smettere di meritarsi qualcosa. Come se vivere più lentamente fosse una colpa.»

Restiamo lì, in silenzio.
Intorno a noi le voci continuano a salire, la musica cambia ritmo, qualcuno brinda.
Per un attimo mi sembra che il mondo giri più veloce — e noi due siamo ferme, al centro.

«A volte mi sembra di essere su una giostra.» dico, quasi tra me.
«All’inizio sali perché sembra divertente, ma poi comincia a girare troppo forte. Ti viene la nausea, vorresti scendere, ma non puoi. Ti dicono che bisogna restare fino alla fine, che è così per tutti.»

Laura mi guarda e sorride con tristezza.
«E intanto ti dimentichi del perché sei salita.»

Respiro piano, come per fissare quel momento nella memoria.
Forse non serve scendere. Forse basta fermarla, anche solo un attimo.

Il cameriere porta il conto, ma nessuna di noi ha fretta di andarsene.
Il gruppo di amici parla di un locale nuovo, di dove andare dopo.
Laura ed io ci scambiamo uno sguardo: complicità e resa dolce, un filo invisibile che ci tiene insieme.

«Andiamo?» chiede lei.
«Sì. Ma non in centro, ti prego. Camminiamo un po’.»

Fuori l’aria è fresca, ha smesso di piovere.
Le luci della città si specchiano sulle pozzanghere, sembrano stelle cadute sull’asfalto.
Camminiamo fianco a fianco, senza fretta.
Non c’è bisogno di parlare. Per un attimo, è sufficiente respirare insieme.

E in quel silenzio condiviso, qualcosa si alleggerisce.
La giostra continua a girare, certo, ma io — per un istante — riesco davvero a restare ferma.
A respirare.

E mentre cammino, penso che non devo aspettare il momento perfetto.
Non devo sentirmi in colpa per voler rallentare.
Posso scegliere di fermarmi anche solo per un attimo, anche solo per me.

Forse, a volte, basta questo: accorgersi che la giostra si può fermare.
Possiamo riprendere fiato, guardare le luci, ascoltare i nostri pensieri.
E ricordare che la vita non è solo correre, ma anche sentire, respirare, scegliere per sé.

Perché ogni tanto, fermarsi è già una forma di libertà.


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