Pensieri ed Emozioni

Non sei in ritardo, sei in cammino

Trenta giorni in viaggio. Un mese intero.


Un viaggio che ho fortemente voluto. Era da anni che sognavo di andare nel Sud-est asiatico.
Sentivo il bisogno di mettere il naso fuori, di vedere qualcosa di completamente diverso da ciò che conoscevo. Forse, una parte di me voleva semplicemente evadere da una realtà che cominciava a starmi stretta.

Negli ultimi undici anni non ho fatto altro che lavorare. Ho cambiato città per ottenere un contratto dignitoso, e da lì – come tanti – sono entrata in un tunnel senza fine. Mi sono sentita incasellata in una vita che ho smesso di interrogare: dove stavo andando? Mi piaceva davvero quello che stavo costruendo?

Ho pensato solo ad accumulare: soldi per la casa, per la macchina, per tutto quello che “dovevo” avere.
Poi è arrivato il Covid, a ricordarci che non tutto è sotto il nostro controllo. Sono passati altri anni.
Un giorno, all’improvviso, avevo 33 anni e mi sono chiesta:
«Che cosa ne è stato di tutti questi anni?»
«Che fine hanno fatto i miei sogni?»

Mi sentivo soffocare all’idea che la vita fosse solo questo.
E allo stesso tempo mi sentivo in ritardo su una tabella di marcia che non avevo scritto io: laurea, lavoro, matrimonio, figli, pensione.
Più ci pensavo, più volevo evadere. Così, insieme a Paolo, ho chiesto un periodo sabbatico alla vita. Un treno stava passando e sapevo che non potevo perderlo. Ne avevo già persi troppi.
Ma questa volta no.

Abbiamo prenotato i voli per Bangkok, preparato gli zaini e tracciato un itinerario serrato: in un mese abbiamo visitato quattro Paesi, attraversato quattro frontiere, cambiato quattro monete e riempito una pagina intera di timbri su un passaporto che, fino ad allora, era rimasto vuoto.

Riassumere questo viaggio in poche parole è impossibile per me.
Abbiamo spesso puntato la sveglia alle 4 o alle 5 del mattino, visto albe e tramonti in luoghi sempre diversi.
Abbiamo preso autobus, sleeping bus, treni, slow boat e aerei. Mangiato e viaggiato con persone provenienti da tutto il mondo. Ognuno di loro ci ha lasciato qualcosa.

A volte non avevamo internet. Ed è stato un bene: ci ha permesso di goderci ogni istante, senza distrazioni. In alcuni momenti, per la prima volta, non ho neanche fatto foto.
E ho capito quanto sia prezioso tenere certi ricordi solo per sé.

Thailandia.
Si guida a sinistra, eppure non c’è stata la colonizzazione inglese. Ho chiesto spiegazioni alle guide: pare che un Re, secoli fa, comprò un’auto in Inghilterra e da lì istituì la regola.
L’86% della popolazione è buddista. Ci sono templi ovunque – i “Wat” – e per entrarvi, come nelle case, si tolgono sempre le scarpe. Come per le altre religioni: gambe e spalle devono essere coperte.
Ci si saluta giungendo le mani davanti al petto e facendo un piccolo inchino. Il piatto tipico è il pad thai.

Laos.
Il Paese che mi ha colpito di più. Probabilmente anche il più povero.
I bambini, spesso ricoperti di fango, vendevano frutta o chiedevano l’elemosina. Indossavano ciabatte enormi o camminavano scalzi.
Il Laos è meno turistico, forse meno “interessante” agli occhi di molti.
Eppure lì, tra persone che sorridevano e non avevano nulla, io mi sono sentita in colpa.
Per tutte le volte in cui mi sono lamentata senza motivo.
All’improvviso, il mio bilocale mi è sembrato una reggia, e i miei lamenti solo dei capricci.

Ho chiesto a Paolo:
«Come fanno ad essere felici se non hanno nulla?»
«Proprio per questo. Quando non hai niente, non hai nulla da perdere», mi ha risposto.

Molte zone, soprattutto al confine con il Vietnam, sono ancora inaccessibili per la presenza di mine inesplose. Dopo la guerra, tanti villaggi sono stati evacuati.

Vietnam.
Tutti me ne avevano parlato benissimo e forse ci sono andata anche carica di aspettative.
Eppure – forse andrò controcorrente – è quello dove ho respirato meno l’autenticità dell’Oriente. Mi è sembrato un miscuglio tra culture: francese, americana e asiatica.
Ho avvertito la frattura profonda tra Nord e Sud, ancora viva dopo trent’anni di guerra.
Abbiamo visitato il museo della guerra e visto gli effetti dell’agente arancio sulle persone.
Qui non ci siamo mai tolti le scarpe: un’abitudine che – dopo settimane – ci veniva ormai automatica. Ci hanno stretto la mano come in occidente. Ancora non ho capito il perché, ma per qualsiasi cosa si suona il clacson. Il piatto tipico è il pho.

Cambogia.
Non volevo andarci. I forum dicevano che la gente era poco ospitale.
Ma Paolo era curioso della storia di Pol Pot.
E contro ogni aspettativa, la Cambogia mi ha conquistata: per la gentilezza delle persone, per la bellezza dei paesaggi, ma soprattutto per la dignità del suo dolore.
Abbiamo visitato il carcere, il museo del genocidio, e conosciuto gli ultimi sopravvissuti. Non capivo sempre le guide in inglese, ma quel giorno dissi a Paolo: «Non serve che traduci. La sua rabbia e il suo dolore arrivano lo stesso.»

Ogni Paese che abbiamo visitato ha vissuto guerre, regimi folli, mutilazioni, tragedie che hanno spezzato famiglie. Eppure non hanno mai smesso di ricordare.
Inevitabilmente ho pensato alla Palestina e mi sono chiesta se l’umanità impari davvero qualcosa.
Ho detto a Paolo: «In ogni viaggio visitiamo campi di concentramento, musei di guerra e statue commemorative. Ma a cosa servono? La storia continua a ripetersi.»
«Proprio per questo. Per non dimenticare. E per raccontare quello che hai visto. Possiamo fare solo questo.»

È stato un mese pieno di emozioni.
Ma se chiudo gli occhi, ci sono quattro momenti che non dimenticherò mai.

Il primo: in kayak, nella baia di Ha Long, con Elèna, una ragazza francese.
Parlavamo due lingue diverse, ma i faraglioni ci avevano tolto il fiato. Lei, ad un tratto, mi ha detto: «It’s beautiful».
E io, senza pensarci, ho risposto: «Già, è beautiful».
Abbiamo riso insieme. In quella risata e in quel mare, c’era tutto.

Il secondo: a Hoi An, seduti a bere una birra, le lanterne colorate galleggiavano nel fiume.
All’improvviso, ho pianto. Paolo mi ha chiesto: «perché?»
«Niente. Sono felice di essere qui. Con te.»

Il terzo: davanti all’Angkor Wat, all’alba.
Per una volta, non mi importava della sveglia e della stanchezza.
Volevo solo essere lì.
E anche lì ho pianto.
Ma non di tristezza. Ho pianto di gioia.
Una gioia pura, piena, intensa.

E l’ultimo, a Sapa.
Dopo un’escursione faticosa tra il fango e le risaie, quella sera ero sfinita, stesa sul letto. Fuori la pioggia cadeva leggera, dentro regnava il silenzio.

Poi, all’improvviso, ho sentito le risate di Paolo: stava giocando a carte con altri ragazzi, parlando in inglese.
Ho sorriso anche io, in silenzio. In viaggio, la magia esiste.
Anche la persona più riservata può aprirsi, sorprendersi e sentirsi parte di qualcosa.

Alla fine di questo viaggio, non ero felice di tornare.
Non mi era mancato il cibo, il clima o le abitudini.
Avevo paura di rientrare in una realtà dove tutto corre, dove ci si lamenta per il traffico, il tempo, il lunedì.

Avevo paura di tornare a sentirmi fuori posto, in ritardo, di nuovo incastrata.

Poi ho guardato il mio passaporto.
Fino a un mese fa era vuoto.
Ora ha quattro timbri.
E mi sono detta: «Non si è mai davvero in ritardo, quando si ricomincia a scegliere.»

A volte basta anche solo fermarsi, spegnere il telefono, fare una domanda che non ci facciamo più:
«Sto vivendo davvero la vita che voglio?»

Non ho tutte le risposte. Ma so questo:
il tempo non torna indietro, ma possiamo ancora decidere cosa farne da oggi in poi.

E magari – per qualcuno che sta leggendo – questo è il segnale che aspettava.
Il treno che sta passando.
E che non si può perdere.

Grazie, a tutti i viaggiatori incontrati in questo mese per caso o forse per destino.

2 commenti

  • Luna

    Anch’io, come te, qualche anno fa mi sono chiesta se la vita che conduceva aveva un senso, per me. Anch’io, come te, ho preso treni che non potevo perdere. Mi rivedo molto in quel che scrivi in questo articolo, cara amica di banco delle elementari. Ti abbraccio.

  • Felicia Antonella

    Bravissima Fedora, ogni viaggio è un’espeienza forte che porterai sempre con te! Fai sempre quello che ritieni giusto per te. La vita scorre inesorabile …un abbraccio

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